Direttiva 99/70/CE circolare contro gli abusi del contratto a tempo determinato
Come ho già spiegato nel precedente articolo, per sopperire alla mia vasta ignoranza delle leggi che regolano i rapporti tra impiegati e datore di lavoro, ed essendo circondata, anche nel mio ambiente lavorativo, da un numero elevato di personale precario che mi ha più volte stimolato la curiosità di come mai questi “mal capitati” da anni, puntualmente, sono “stressati” dal rinnovo o meno del contratto che hanno in essere con l’amministrazione, quasi fosse il gioco del lancio della moneta testa si croce no, ho fatto delle ricerche per capire come mai si è arrivati a questo punto di non ritorno con il settore del precariato.
Ecco cosa ho scoperto:
“L’esplosione” della precarizzazione dei rapporti di lavoro
L’ampliamento a dismisura dei contratti di lavoro non standard (si considera standard quella a tempo indeterminato detto anche in pianta stabile) è derivata dai seguenti fattori:
- dal fenomeno della globalizzazione di mercato che ha sottoposto tutte le imprese ad esigenze di concorrenza spietata e di decentramento produttivo;
- dal fenomeno della terziarizzazione del mercato, cioè dell’ampliamento delle imprese di servizi le quali devono operare Just in time (basti pensare a quelle stagionali);
- dal fenomeno della crisi mondiale dell’economia innescata nel 2007 dai così detti “mutui sub prime” (sono finanziamenti erogati a una fascia di clientela ad alto rischio di insolvenza come nel film di Checco Zalone “Sole a catinelle”), che ha determinato un rafforzamento della posizione del lavoro e una maggiore accondiscendenza dei lavoratori dei sindacati ad accettare condizioni di lavoro precario;
- dal rapporto OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sull’occupazione del 1994 (Job Study) nel quale si sosteneva che il miglioramento delle dinamiche occupazionali sarebbe potuto derivare solo da un “mercato del lavoro più libero, affetto in minor misura da distorsioni (pressioni sindacali, normative a protezione del lavoro, costi di turnover, rigidità salariali di orario, benefici di disoccupazione e salario minimo)”.
- dalla politica di bilancio dello Stato italiano di contenimento della spesa riguardante il personale mediante reiterati blocchi del turn over con la conseguente necessità di supplire alle carenze di organico con contratti a tempo determinato o anche con altri contratti così detti “flessibili”.
In passato il contratto di lavoro a tempo determinato aveva un’importanza residuale nel settore del pubblico impiego; vuoi in considerazione delle piante organiche da ricoprire con posti di ruolo, vuoi in considerazione del principio del pubblico concorso regola fondamentale (dettata dell’articolo 97 della Costituzione) per la quale ai posti pubblici si accede esclusivamente mediante concorso.
Naturalmente la privatizzazione di una parte consistente dei rapporti del pubblico impiego ha determinato una modifica dell’approccio all’utilizzo dei contratti in argomento, ma entro limiti ed esigenze obbiettive, di responsabilità amministrative e disciplinari in capo ai dirigenti nel caso di stipula e di proroga illegittima dei contratti in discorso (almeno nei casi di dolo e di colpa grave).
Dunque la disciplina alla quale la P.A. deve attingere è quella privatistica che ha subito un’enorme evoluzione.
L’accordo e la direttiva 99/70/CE
Lungi da voler qui riassumere in modo pieno e completo un’evoluzione ultracentenaria basti qui ricordare in maniera di sintesi l’accordo quadro concluso il 18 marzo 1999 da CES, UNICE e CEEP (UNICE: Unione delle Confederazioni delle industrie della Comunità europea, CEEP: Centro europeo dell’impresa e della partecipazione pubblica, CES: Confederazione europea dei sindacati) a seguito del quale è stata emanata la direttiva CE 99/70/CE con lo scopo di evitare gli abusi, perpetrati nel tempo, dei rapporti di lavoro flessibili.
La strategia europea per l’occupazione aveva come unico obbiettivo quello di migliorare la grave situazione occupazionale che caratterizzava quasi tutti i paesi membri, ma aveva, inoltre, l’ulteriore, e forse preminente scopo di evitare gli abusi dei rapporti di lavoro flessibili e di garantire la qualità del lavoro a termine tramite l’affermazione del principio di “non discriminazione dei lavoratori”.
L’accordo, dopo aver affermato la normalità dei contratti a tempo indeterminato, riconosce l’utilizzazione dei contratti a termine, ma introduce la condizione delle “ragioni oggettive” come strumento di prevenzione degli abusi, che sono:
- Migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;
- Creare un quadro normativo per la prevenzione di abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
L’accordo “si limiterebbe esclusivamente ad imporre agli Stati membri l’obbligo di restringere la possibilità di una ripetizione senza limiti tra le stesse parti di successivi contratti a termine”.
Nel nostro ordinamento, la direttiva CE 99/70/CE sul lavoro a tempo determinato è stata recepita dal d.lgs. n. 368/2001 con il quale è stata introdotta la possibilità di apporre un termine di scadenza al contratto di lavoro.
La direttiva comunitaria emanata con lo scopo di prevenire gli abusi dei contratti a termine, impone agli Stati membri, che ne siano sprovvisti, di emanare normative interne che:
– prevedano le ragioni obbiettive che giustifichino il rinnovo del contratto a termine,
– prevedano la durata massima dei contratti successivi,
– prevedano il numero dei possibili rinnovi.
L’Italia e la recezione della direttiva comunitaria sul contratto di lavoro a tempo determinato
Si puntualizza che il d.lgs. n. 368/2001 (settore privato per il settore pubblico si fa riferimento al Testo Unico 165/2001) ha abrogato tutti i precedenti atti normativi in materia di contratti a tempo determinato, senza peraltro riconfermare (esplicitamente) alla contrattazione collettiva il potere di prevedere altre ipotesi di contratti a termine rispetto a quelle stabilite dalla normativa legale come era consentito in passato; infatti, l’art. 23 “Disposizioni in materia di contratto a termine” (abrogato dall’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 368/01) della legge 56/1987 riconosceva alla contrattazione collettiva – ancora si ricorda – la facoltà estensiva di introdurre ipotesi di contratto a termine aggiuntive rispetto a quelle legali, e pure quella restrittiva di predeterminare la percentuale dei lavoratori che potevano essere assunti con contratti di lavoro a termine rispetto al numero di lavoratori impegnati a tempo indeterminato. Ovviamente le due facoltà erano separate, ma inevitabilmente si coordinavano tra di loro poiché diventavano materia di uno scambio contrattuale al tavolo della trattativa secondo la tradizionale regola sinallagmatica (Convenzione che impegna entrambe le parti reciprocamente) della corrispettività (o, meno aulicamente, secondo la regola ‘io ti do una cosa a te e tu dai una cosa a me’).
Con questo piccolo intervento spero di averVi fatto capire a quale regola (dettata dall’Unione Europea) si debba far riferimento quando si parla di contratti a termine e nel qual caso anche Voi lettori faceste parte della categoria del precariato andate, anche per curiosità, a scaricare tramite internet numerose sentenze (Morruso, Sardino, Mascolo ecc..) con le quali si sono sostenute molte battaglie, nel corso di questi ultimi 15 anni da tanti “valorosi combattenti” che esponendosi in prima persona hanno fatto si che dei privilegi che erano stati calpestati ritornassero ad essere pietre miliari sui diritti fondamentali dei lavoratori.
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