Privatizzazione
Nello scrivere questo articolo, da dipendente pubblico, mi sono interrogata su quanto, a volte, sono a conoscenza delle trasformazioni che hanno riguardato, nel corso degli anni, il settore pubblico in cui lavoro e mi sono, purtroppo, anche data una risposta: ovvero che la mia ignoranza su tale argomento è abbastanza forte. Così, reduce dagli studi universitari conclusi di recente, mi sono improvvisata “giornalista” e trasformata, grazie alla UIL che me ne ha dato la possibilità, in un Robin Hood che mette a disposizione il suo modesto sapere per gli altri dipendenti pubblici, al fine di evitargli (come è successo a me) delle figure da “allocco” quando gli “scienziati” (altri nostri colleghi), parlando delle questioni lavorative che ci riguardano, giornalmente citano leggi, decreti, normative (che poi saranno giusti?) con fare saccente e presuntuoso.
Per cominciare, occorre richiamare un po’ di normative per ricostruire il percorso “storico” (i mitici anni 80/90) che ha caratterizzato la privatizzazione del pubblico impiego:
Legge quadro n. 93/83 | Legge quadro sul pubblico impiego. |
Legge delega n. 421/1992 | “Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale.” |
D.Lgs 29/1993 | Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421. |
Legge delega 59/1997 | “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa” |
D.Lgs 80/1998 | “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59” |
D.Lgs 165/2001 | Testo Unico del pubblico impiego “”Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” |
D.Lgs 150/2009 | Legge Brunetta “Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni.” |
Legge 114/2014 | Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90.Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari |
Legge delega 124/2015 | Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. |
La contrattualizzazione e privatizzazione del rapporto del pubblico impiego ha avuto una storia lunga e movimentata, la cui metamorfosi è maturata negli anni ’90.
Il rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato e delle amministrazioni pubbliche si è configurato come rapporto di diritto pubblico fin dal periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia (1861), e ciò a causa delle peculiari responsabilità che ricadono in capo al pubblico impiegato (funzionario) definito come “il soggetto abilitato a manifestare la volontà della pubblica amministrazione e ad agire per suo conto”. Questa immedesimazione organica del dipendente con l’amministrazione di appartenenza inizialmente si è limitata all’impiego alle dipendenze dello Stato; successivamente è stata allargata a tutte le altre amministrazioni.
I principi fondamentali che contraddistinguono il pubblico impiego sono stati delineati dalla giurisprudenza amministrativa che dal 1924, in base ai R.D. n. 1054 e 1058, fino al 1993, in considerazione del d.lgs. n. 29/1993, ha avuto la giurisdizione esclusiva sulle controversie inerenti i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni; tali principi possono essere così riassunti:
– il rapporto di lavoro pubblico non ha un fondamento contrattuale, ma nasce con un atto unilaterale di nomina da parte della pubblica amministrazione; esso è disciplinato da leggi e regolamenti e la sua gestione è realizzata mediante atti amministrativi;
– il rapporto che lega il pubblico impiegato all’amministrazione di appartenenza è duplice e si distingue in un rapporto organico, in base al quale gli atti compiuti dal dipendente rappresentano l’espressione di volontà dell’organo e dell’ufficio al quale egli è preposto, ed in un rapporto di servizio, che implica lo svolgimento di una prestazione lavorativa in cambio di un compenso;
– il pubblico impiegato può vantare nei confronti dell’amministrazione in cui è incardinato unicamente interessi legittimi (e raramente diritti soggettivi) per i quali è competente il giudice amministrativo.
Dalle caratteristiche sopra esposte si evince che “i diritti del cittadino cedevano il passo, una volta che questi veniva inserito in un’organizzazione pubblica, ai doveri dell’impiegato e ad altre limitazioni della propria sfera di libertà che condizionavano anche la sua vita privata”.
Anche nella Costituzione si trovano tracce che testimoniano quanto sopra esposto ovvero:
– l’art. 98 colloca i pubblici impiegati “al servizio esclusivo della Nazione”;
– l’art. 97 pone la riserva di legge sull’organizzazione dei pubblici uffici e detta i principi di buon andamento e di imparzialità.
Il regime di diritto pubblico però se da un lato ha determinato una supremazia della Pubblica Amministrazione, dall’altro ha concesso ai pubblici impiegati particolari privilegi e vantaggi che nel tempo hanno contribuito a far calare l’efficienza e la qualità dell’azione amministrativa.
La lentezza burocratica e la scarsa efficienza degli apparati amministrativi, furono denunciati dal c.d. “rapporto Giannini”, che evidenziò la necessità di procedere ad un intervento di riforma, necessario per ridurre la disfunzione dell’azione amministrativa, addebitabile, in primo luogo, ad un regime eccessivamente garantista nei confronti del lavoratore pubblico.
L’idea era quella di continuare a perseguire “l’interesse pubblico” che fino ad allora era stato il pilastro su cui poggiavano i principi di supremazia della pubblica amministrazione, con una logica di organizzazione delle risorse umane e del rapporto con i dipendenti più simili a quelli del settore privato, riducendo contemporaneamente la supremazia della P.A.
Da questa relazione hanno preso spunto i primi interventi di riforma del pubblico impiego, che possono essere suddivisi in quattro fasi che andrò brevemente ad esaminare.
La prima fase della riforma del 1980
Nella prima fase, agli inizi degli anni ’80, si effettua il primo tentativo di avvicinare il settore pubblico a quello privato. Con la Legge quadro n. 93 del 1983 è stata introdotta la contrattazione collettiva; prima di allora il rapporto del pubblico impiego era regolato esclusivamente dalla legge.
Questa legge prevedeva che particolari aspetti del rapporto di lavoro pubblico venissero regolati in via negoziale tra la pubblica amministrazione e le organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative.
La contrattazione così concepita rimaneva alquanto limitata, poiché gli aspetti più rilevanti erano comunque riservati alla legge e perché non costituiva fonte normativa diretta, essendo necessario un atto di recepimento, ossia il decreto presidenziale.
Il sistema di contrattazione introdotto con la legge n. 93/83 presenta così diversi punti deboli: il riparto di competenze tra legge e contrattazione non è netto e per tale motivo spesso si verificano delle “invasioni di campo” reciproche; inoltre, benché l’art. 11 comma 2 della legge 93/83 vieti espressamente alle pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici di concedere trattamenti economici integrativi non previsti dall’accordo, nel corso degli anni tale vincolo è stato disatteso, concedendo alle varie categorie di dipendenti pubblici trattamenti economici aggiuntivi con finalità di scambio politico. Tutto ciò ha determinato una “grande confusione delle fonti” disciplinanti il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni e una “grande confusione retributiva” da cui è derivata la mancata riduzione degli oneri finanziari per il personale, che era uno dei principali obbiettivi della riforma.
La seconda fase della riforma del 1990
La seconda fase di riforma amministrativa si apre con la legge delega n. 421 del 23 ottobre 1992 con la quale il Parlamento avvia un’epoca di grandi riforme amministrative, tutte accomunate dall’esigenza di contenere la spesa pubblica.
Tra le riforme previste dalla legge delega una delle più significative è stata la privatizzazione del pubblico impiego, concretizzata con il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, modificato nello stesso anno con i decreti legislativi correttivi n. 470 e n. 546 e pure con successive modifiche.
I punti salienti della legge delega possono essere così riassunti:
- Privatizzazione del pubblico impiego e contestuale applicazione delle regole di diritto privato ai rapporti tra pubbliche amministrazioni e dipendenti;
- Contrattualizzazione, poiché il rapporto di lavoro non si costituisce più con un atto pubblico unilaterale di nomina, bensì con un contratto individuale conforme ai contratti collettivi stipulati tra i rappresentanti dei lavoratori e delle amministrazioni;
- Riparto di giurisdizione, vale a dire l’attribuzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, della piena giurisdizione sulle controversie in materia di lavoro ad esclusione di alcune materie residuali, per le quali la competenza resta in capo al giudice amministrativo;
- Separazione tra potere politico e potere dirigenziale: la funzione di programmazione, indirizzo e controllo è attribuita agli organi di vertice, mentre la gestione e l’adozione di atti amministrativi spetta ai dirigenti (di prima e seconda fascia).
Negli anni immediatamente successivi, un ulteriore impulso alla privatizzazione del pubblico impiego è dato dalla delega legislativa conferita dall’art. 11, comma 4, della legge n. 59/97, alla quale è seguita una serie di decreti legislativi che si sono succeduti fino all’ottobre 1998, e che hanno dato vita a quella che più comunemente è ricordata come riforma Bassanini. Tali decreti hanno modificato ed integrato il d.lgs. n. 29/93 e si sono occupati, in primo luogo del decentramento e della semplificazione amministrativa. Quest’ultimo aspetto in particolare si coniuga con l’esigenza avvertita dal legislatore di un miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa.
La terza fase della riforma degli anni 2000
La terza fase della riforma è identificabile col d.lgs. n. 165/2001 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) che è generalmente considerato il “Testo Unico” del pubblico impiego in quanto riassume e riordina le norme generali attinenti a questo settore; è su tale testo che una serie di interventi normativi hanno riguardato l’articolo 36, modificato più volte, con l’obbiettivo di ridimensionare quella che è stata definita come “una piaga sociale”: il precariato. Infatti, il comma 3 dell’articolo 36 è noto come la disposizione “anti-precariato” in quanto prevede che “al fine di evitare abusi nell’utilizzo del lavoro flessibile, le amministrazioni, nell’ambito delle rispettive procedure, devono rispettare i principi di imparzialità e trasparenza e non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio”. Questa regola venne stabilita illo tempore (espressione usata per indicare un tempo lontano che non si ricorda quasi più) poiché, oltre tale periodo, il lavoratore poteva nutrire delle aspettative dettate dalla convinzione che la reiterazione del rapporto sia segno evidente di un fabbisogno stabile dell’ente, ed assume ora un significato ulteriore poiché la legislazione vigente (d.lgs. 368/01 “Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES” con le successive modifiche) attribuisce al lavoratore del settore privato, con poche eccezioni, il diritto al posto di lavoro a tempo indeterminato nel caso del superamento di un triennio di rapporti lavoro a tempo determinato anche in considerazione di proroghe e rinnovi.
La quarta fase della riforma: i nuovi obbiettivi
Gli ultimi interventi legislativi, in materia di pubblico impegno, hanno aggiunto agli obbiettivi di riduzione della spesa pubblica e di miglioramento dell’efficienza anche quello di contenere il ricorso ai contratti di lavoro cosiddetti “flessibili”. E’ utile precisare che, in questo contesto, quando ci si riferisce ai contratti di lavoro flessibili si fa riferimento a quelle tipologie di lavoro subordinato di tipo temporaneo quali i contratti a tempo determinato e i contratti di lavoro autonomo, dei quali le pubbliche amministrazioni hanno fatto un uso spropositato negli ultimi anni contribuendo a fare aumentare il numero dei lavoratori precari.
Dal 1997 le leggi finanziarie che si sono susseguite hanno riproposto più volte il blocco del turn-over ai fini di contenimento della spesa pubblica, impedendo alle amministrazioni di bandire i concorsi necessari per coprire i posti di ruolo vacanti. La possibilità di ricorrere ai contratti di lavoro flessibile, prevista dal già citato art. 36 comma 1 del D.Lgs n. 165/2001, per le pubbliche amministrazioni ha rappresentato “una valvola di sfogo” per l’approvvigionamento di personale, ma non ha effettivamente garantito il risparmio di spesa rispetto al personale assunto a tempo indeterminato, né il miglioramento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni.
Così si è iniziato a riflettere sulla compatibilità dei contrati di lavoro flessibili con le funzioni che la Costituzione attribuisce alle pubbliche amministrazioni le quali devono perseguire gli interessi generali nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento che però possono essere danneggiati dall’instabilità occupazionale.
Infatti, da una parte, il lavoratore, assoggettato sempre più alla precarietà, non può esprimere in modo pieno la sua professionalità e, dall’altra parte, si rileva lo scarso interesse dell’amministrazione ad investire sulla formazione del lavoratore precario, indotto quindi ad offrire servizi sempre più scadenti.
Ecco così che, per ridurre il ricorso a contratti flessibili, nelle leggi finanziarie più recenti, il legislatore è intervenuto nel seguente modo:
– limitando la possibilità di stipulare contratti di lavoro subordinato di tipo temporaneo, e contratti di lavoro autonomo nella forma di consulenze e collaborazioni coordinate e continuative;
– introducendo il dovere per il dirigente responsabile di vagliare l’opzione dell’esternalizzazione e dell’appalto di servizi prima di ricorrere a forme di lavoro subordinato di tipo temporaneo;
– imponendo l’obbligo di coprire i posti vacanti in organico con le procedure di mobilità individuale e collettiva dei dipendenti, al fine di evitare dispersione di risorse e di attuare una efficiente redistribuzione di personale tra le diverse amministrazioni;
– escludendo il settore pubblico dall’ambito di applicazione della riforma del mercato del lavoro attuata col d.lgs n. 276/2003 che ha introdotto per il settore privato, nuove forme contrattuali di tipo temporaneo.
Nel complesso, il processo di riforma ha ricondotto, sia pure non completamente, la disciplina del pubblico impiego nell’alveo di quella privatistica contenuta nel codice civile e nelle leggi sul lavoro nell’impresa, mentre le controversie, salvo alcune eccezioni, sono state devolute alla giurisdizione del giudice ordinario.
Le fonti che ad oggi regolano il rapporto del pubblico impiego contrattualizzato sono costituite in primo luogo dalla legislazione ordinaria (d.lgs 165/2001 e successive modificazioni, Capo I, titolo II, Libro V del Codice Civile, leggi sul lavoro subordinato nell’impresa) e in secondo luogo dalla contrattazione collettiva.
Ma oltre alle fonti citate, il rapporto del pubblico impiego non può prescindere dalle disposizioni costituzionali, e, in particolare, dai principi dettati dall’art. 97 della Costituzione, cioè quelli del buon andamento, dell’imparzialità e dell’accesso al pubblico impiego mediante concorso, che hanno limitato fortemente la privatizzazione del pubblico impiego.
In definitiva possiamo dire che il processo di privatizzazione ha determinato un considerevole avvicinamento tra il pubblico impiego e il lavoro privato, ma, nonostante ciò, tuttora continuano ad esistere sostanziali differenze che determinano la specialità del rapporto del pubblico impiego.
Per questa prima volta spero di averVi trasmesso quello che erano le mie lacune della storia della privatizzazione per far si che, se si vi troviate ad affrontare dei dibattiti inerenti questo aspetto, riusciate a comprendere di cosa si parla senza guardarsi intorno per far finta di ascoltare o pensare a cosa cucinare per cena; sono piccole nozioni ma sicuramente utili ad incasellare il nostro pensiero con quello che è la realtà. Scrivere su queste cose è sempre un po’ pericoloso perché o si va fuori tema o si rischia di offendere qualcuno, ma poiché l’evolversi della giurisprudenza anche in questo campo è incessante e frenetico come possiamo prepararci al futuro nel nostro settore se non conosciamo il passato ed il presente dello stesso?
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